Ogni anno, nel mese di maggio, tutta Morano Calabro si ferma per tre giorni. Accade attorno al 20 maggio, festa patronale di san Bernardino da Siena, per celebrare la Festa della bandiera, in cui si rievoca la leggendaria battaglia medievale, che qualcuno fissa all'anno 1096, da cui si vuol far risalire la nascita dell'identità moranese, il senso di una comune appartenenza, l'orgoglio di appartenere a una stessa comunità. Una tradizione ripresa solo nel 1996, dopo due secoli, ma che, tanto a chi vi partecipa quanto a chi arriva a Morano per assistervi, sembra si sia svolta da sempre.
Durante lo scontro, noto pure come battaglia di Petrafòcu dal nome della contrada Pietrafoco dove si sarebbe svolto, uno dei saraceni fu fatto prigioniero e decapitato: la sua testa fu poi esibita nelle strade del borgo, a testimoniare che i mori avevano avuto la peggio. Un episodio truce e sanguinario, dunque, ma che la memoria storica ha in qualche modo “ammorbidito”, sino a costruirvi un'iconografia popolare nella quale, con quel moro decapitato, si è persino finiti con l'identificarsi un pochino: tanto che una falsa etimologia fa derivare il nome del paese proprio dai Mori, mentre il volto di un giovane moro è finito sullo stemma cittadino, imponendosi come un simbolo identitario, nonostante il sottostante motto latino “Vivat sub umbra” sottolinei probabilmente la soddisfazione per averlo sconfitto. La testimonianza più antica di questo uso iconografico della testa di moro è in una lapide del 1561, sopra una fontana di piazza San Nicola. Con qualche modifica quell'immagine è giunta fino a oggi: se allora la testa di moro era rappresentata con barba e cappello conico, ora è senza barba e con un fez in testa, mentre nello stemma comunale sono stati aggiunti i tre colli sottostanti, che rappresentano i tre borghi cittadini di Morano, Sant'Angelo di Colloreto e Pietrafoco.
Pare che una cerimonia della bandiera si svolgesse fino al 1806, ovvero all'occupazione napoleonica del Regno di Napoli: la festa attuale cerca di riprendere i personaggi chiave di quella antica, con le dovute attualizzazioni, e soprattutto con la scelta di ambientarla in anni (e con costumi) rinascimentali. Lo svolgimento prevede che nel pomeriggio del 19 maggio un corteo con in testa il Mastrogiurato, seguito da un Giurato a piedi, dal Vice e dal Sergente, salga lungo i vicoli sino al castello normanno-svevo, dove li attendono il Castellano e il Notaro, custodi di una “bandiera regia” e di una bandiera bianca con l'effigie di un moro. Viene siglato un contratto con cui il Mastrogiurato prende in consegna le due bandiuere per condurle al monastero di san Bernardino, in fondo al paese, insieme ad altri oggetti simbolici: pistola, chiavi, candele, che verranno poi posti sotto la statua di san Bernardino. Presso “lo forno”, infine, il Mastrogiurato inalbera la bianca “bandiera del Moro”.
Il mattino seguente, 20 maggio, si tiene la fiera di san Bernardino, nella quale pare che fino al 1806 il Mastrogiurato svolgesse effettivamente attività di giudice, per dirimere le liti e le controversie sorte fra i partecipanti durante la fiera stessa. La Festa della Bandiera a Morano Calabro nel corso degli ultimi anni s'è via via arricchita di scenografie e insegne ai balconi, di figuranti con splendidi costumi rinascimentali, e poi di sbandieratori, cavalieri, pistonieri.
Se la storicità della battaglia di Petrafòcu può essere messa in dubbio, c'è un'altra battaglia, di assai maggior importanza, che davvero si svolse nel territorio di Morano Calabro, dieci chilometri a nord ovest dal borgo: è la battaglia di Campotenese, combattuta il 9 marzo 1806 fra esercito borbonico guidato dal generale Jean Reynier (nel ritratto a sinistra) e le truppe napoleoniche comandate dal generale Roger de Damas, uno scontro che cambiò le sorti del Meridione d'Italia. I francesi, dopo aver preso Napoli il 15 febbraio, subito presero a incalzare sui monti le truppe borboniche, spingendole verso sud. Presa Lagonegro, obbligarono le truppe napoletane a ritirarsi per la valle di San Martino fino al piano di Campotenese, senza avere l'accortezza però di difendere adeguatamente le sommità che lo circondano. Ai napoleonici, pur assai inferiori di numero ma assai più veloci e organizzati, bastò impadronirsi delle alture per circondare i borbonici e metterli in una posizione insostenibile, obbligandoli a fuggire disordinatamente, in ogni direzione. Le truppe napoletane, che contavano undicimila uomini, lasciarono sul campo tremila fra morti e feriti. I francesi, che erano seimila, ebbero solamente 500 perdite. Per i borbonici insomma fu una disfatta: le altre divisioni del Regno di Napoli, appreso della sconfitta, fuggirono verso la Sicilia, per varcare lo Stretto di Messina e così lasciare tutto il Sud continentale in mano ai francesi.
Testo di Roberto Copello; per le foto, si ringraziano Andrea Martini di Cigala/concorso Tci Borghi d'Italia (in alto); sito web eventiesagre.it (foto campo di battaglia).